Questa è un’opera di pura e totale fantasia. Perciò, chiunque dovesse eventualmente ritenere di ravvisarvi un qualsivoglia riferimento a persone realmente esistenti o esistite, a luoghi reali e/o fatti o eventi realmente accaduti, sappia che si sbaglia, e di grosso. Ci mancherebbe altro: non mi sarei mai permesso.
Siamo alla fine, è il momento di tirare un bilancio: quello di Pino… e il vostro.
In tribunale come nella vita, può venire il momento per ognuno, di emettere una propria sentenza, e perciò adesso a voi la parola.
Io lo so, che cosa provi. Io lo so, cosa si prova, quando ti chiamano per nome e ti devi alzare, e startene zitto a sentire cosa sarà del tuo futuro ad opera di chi ha deciso per te frettolosamente sbagliando, sempre se non lo aveva già deciso da prima, prima di sedersi davanti a te in alto, dietro lo scranno. Io lo so. E lo so perché… quella brutta sensazione io la vivo mio malgrado ogni giorno.
perché io, tant’è vero che mi chiamo Pino Occhio, alla bugia di una società giusta in nome della quale dire di sì a qualcuno e di no a qualcun altro, alle menzogne di un pescecane che ti lascerà andare, di una fata che ti salverà, di un Paese dei Balocchi che andrà sacrosantamente alla rovina e allo sbando, non ci credo più e perciò non le voglio più raccontare
Pino è uscito di casa con quella precisa idea Vorrei… una Lemonsoda. No, non la Schweppes Lemon. No, non la Schweppes Lemon. Vorrei qualcosa che abbia a che fare più con la limonata, e meno con un’acqua tonica, .
In queste storie incontriamo un particolare tipo di criminali. Quelli che delinquono senza obiettiva costrizione o esigenza: per avidità, sete di potere, disonestà congenita.
A neppure trent’anni ero già quasi calvo, e sì che a venti sfoggiavo chiome e zazzere folte e ribelli. Saranno state tutte ‘ste preoccupazioni, o forse anche solo la mia particolare sensibilità.
Ma intanto sono sempre stato facile agli entusiasmi, soprattutto a quelli per le piccole cose. Sarà magari perché ho sempre sentito la mancanza delle grandi.
Coniato a metà diciannovesimo secolo dal filosofo britannico John Stuart Mill – allo scopo di suggerire o raffigurare un’immagine concettuale opposta a quella identificata dal concetto filosofico classico di “utopìa” introdotto tre secoli secoli e mezzo prima dal suo connazionale Thomas More – il termine “distopìa” viene ormai quasi esclusivamente associato, nel linguaggio e nei riferimenti estetici a noi contemporanei, all’evoluzione in chiave negativa dei meccanismi della convivenza urbana e civile; tanto da assurgere spesso a blasone identificativo della messa in scena letteraria e cinematografica di società futuribili caratterizzate e marchiate da degrado etico, sociale e ambientale, pur in contesti di alto e dinamico sviluppo tecnologico.
In una sfinita Dublino post Covid di una faglia temporale lievemente alternativa alla nostra, dove lo show business ha avuto molte più difficoltà a ripartire che non nella nostra realtà, per una scalcagnata band etnobeat italiana di molta chiacchiera e poche speranze è fortunosamente giunto il giorno di poter esordire sul palco che ha sempre sognato.
Pure quel giorno, niente.
Ma le sorteggiavano veramente, tutte quelle partenze premio?
Non le aveva ancora vinte nessuno di sua conoscenza: che ne so, uno del suo quadrante, del suo settore. A parte i soliti amici e parenti di; ma quello, è chiaro.
Io invece, caro Pino, caro Vostro Ex Onore, io invece vi faccio fessi: io a voi. A fin di bene, chiaro. Ho studiato per quello. Perché il mio ideale di società va oltre il superato concetto di giustizia. Si basa sulla solidarietà.